Mentre il dramma di Sirte e di Bani Walid si trascina nell’apparente indifferenza dell’opinione pubblica italiana e mondiale, mentre c’è chi si chiede se stiamo assistendo agli ultimi lampi di una guerra già finita o all’inizio di una lunga resistenza, è giunto il momento di dare una valutazione complessiva di quanto è accaduto fino adesso in Libia.
In molti, in troppi hanno creduto alla narrazione che ci è stata somministrata, ed è molto preoccupante e molto grave che la trama di menzogne e di inganni che è stata tessuta intorno a questa guerra sia stata così poco contestata.
La guerra di Libia, ci hanno detto, è stata necessaria, è stata legale, è stata giusta. Lo hanno proclamato innumerevoli prese di posizione occidentali, lo ha detto e ribadito James Cameron nella sua dichiarazione di vittoria del 22 agosto. E’ stata necessaria, nelle sue parole, “perché Gheddafi stava per massacrare il suo popolo e quella strage di migliaia di innocenti è stata scongiurata.” E’ stata legittima, “perché abbiamo ottenuto una Risoluzione delle Nazioni Unite e abbiamo sempre agito secondo quella Risoluzione.” E’ stata giusta perché “il popolo libico si merita di decidere il proprio futuro”.
Questa è la narrazione che ci è stata somministrata, questa è, a quanto pare, la convinzione di Napolitano e questo è quello che tanti, spesso in buona fede, hanno creduto.
Ma questa narrazione è un puro inganno. La verità è l’esatto contrario: questa guerra a) non è stata necessaria, b) non è stata legale, c) non è stata giusta. Esaminiamo i tre punti uno per uno.
a) Non è stata “necessaria”, perché la situazione che si era creata in Cirenaica fra il 17 febbraio e il 17 marzo era molto diversa da come fu all’epoca rappresentata dai media. A differenza che in Egitto e in Tunisia, in Libia era in corso un’insurrezione armata. Nessuno può dire come sarebbe andata se gli insorti di Bengasi avessero seguito l’esempio dei loro fratelli egiziani e si fossero ferreamente attenuti ai metodi e agli strumenti nonviolenti. Certo è che la scelta di prendere le armi fra il 17 e il 19 febbraio non fu soltanto una sconfitta della nonviolenza, fu un atto che avrebbe messo a dura prova la temperanza e la moderazione di qualunque governo.
Fu smisurata, criminale e infame la reazione di Gheddafi? Così ci fu fatto credere allora. Gheddafi fu accusato di bombardare il suo popolo dal cielo, di tramare il genocidio, di perpetrare massacri indiscriminati. Come ha dimostrato Maximilian Forte (qui), la maggior parte di quelle accuse sarebbe poi risultata infondata.
Adesso, per esempio, sappiamo che non era vero che Gheddafi avesse usato l’aviazione per bombardare gli insorti di Bengasi. Ma quella menzogna, diffusa su tutte le TV satellitari, fu presa per buona dal mondo intero, compreso (vedi qui) l’autore di questo blog. Quella menzogna era necessaria per pretendere la no-fly zone, ma quando essa fu smentita dalla stessa Nato, nessuno si curò del dettaglio.
Gheddafi non era uomo che potesse piacere a chiunque abbia a cuore la libertà. Era uomo di temperamento tirannico, pieno di sé, incline alla sopraffazione e stregato dalla voglia di comando, come lo sono tutti i dittatori. Basta guardare indietro in questo blog, per vedere quanto ci stesse simpatico.
Proprio per questo si prestava bene ad essere demonizzato, attribuendogli intenti di sterminio indiscriminato, stupri selvaggi e biechi, arruolamenti di mercenari assetati di sangue. Come argomenta lo pseudo-Swift (Jonathan Swift, L’art du mensonge politique, Amsterdam, 1733), l’arte della menzogna politica esige che il falso abbia i crismi dell’attendibilità. Ci vuole qualcuno che non sia un angelo, per poterlo trasformare in un mostro. E’ certo che le forze di Gheddafi, prima e dopo l’intervento Nato, abbiano commesso violazioni gravi, ma si può mai credere che le vite salvate dalla guerra siano di più di quelle che ha spento?
Fino al giorno del primo attacco aereo, i morti non erano stati più di qualche centinaio, di cui la maggior parte insorti in armi. Dopo l’intervento, nessuno sa quanta gente abbia perso la vita, fra civili inermi, insorti armati e militari dell’esercito. I ribelli hanno parlato di trentamila “martiri” nelle loro schiere. La cifra non è molto credibile, come tante delle loro proclamazioni, ma è difficile sperare che le vittime fra le due parti non si contino in molte migliaia. Un bel “salvataggio”, non c’è che dire. Se anche Gheddafi avesse avuto mano libera, è difficile immaginare che le morti e le distruzioni sarebbero state di questa portata. Sostenere che sia stata scongiurata “una strage di migliaia di innocenti” è quanto meno una pretesa ardita.
Se lo scopo, pertanto, era quello di “salvare vite umane”, questo intervento è clamorosamente fallito. In questa luce, appare davvero grottesco l’ardire di Nicholas Kristoff, quando inneggia allo “shining example of a successful humanitarian intervention” (International Herald Tribune, 2.9.2011), un “luminoso esempio di riuscito intervento umanitario”.
Tanto più che un intervento armato come questo non era certo l’unica soluzione possibile. Anzi, la situazione di Bengasi era quanto di più prossimo si possa immaginare alle condizioni ideali per un intervento di interposizione non armata: il 17 marzo, correvano cento chilometri fra gli insorti di Bengasi e le truppe di Gheddafi. Ma la dottrina militare corrente non ammette interventi d’interposizione non armata: non li studia, non li programma, non prevede fondi per renderli possibili. Forse a rendere “necessarie” certe guerre, è solo la cecità della dottrina militare corrente.
Ma c’è di più. Se anche ammettessimo che fosse indispensabile l’intervento del 18 marzo, era proprio indispensabile continuare le ostilità senza un attimo di respiro dopo che Gheddafi aveva offerto il cessate il fuoco e l’apertura dei negoziati? Eppure lo fece molte volte. Ben pochi ricordano, per esempio, che il 10 aprile Gheddafi aveva pienamente accettato il piano di pace dell’Unione Africana che prevedeva il cessate il fuoco e l’immediata apertura di trattative per un processo di riforma costituzionale e libere elezioni. Fu un passaggio cruciale. Le potenze occidentali indussero il Consiglio Nazionale di Transizione a rifiutare e continuarono a bombardare per tutta la durata della visita della delegazione africana. Era necessario? Tutt’altro. Si poteva aprire la strada ad un autentico processo di pace. Sono state le potenze occidentali a non volerlo. Non certo per salvare vite umane: era “necessario” continuare la guerra solo per raggiungere il loro obiettivo strategico di sostituire il governo della Libia con un altro più prono ai loro voleri.
b) Secondo punto. Davvero questa guerra è stata legale? L’intervento, ci vien detto, è stato autorizzato dalla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza.
Chi ha avuto la pazienza di esaminare quella risoluzione, non può non avere constatato quanto sia discutibile sotto molti profili. Abbiamo già argomentato su questo blog che essa non è conforme allo statuto dell’Onu, il quale prevede solo, nel mai applicato art. 47, interventi armati sotto comando Onu. Abbiamo argomentato che questa clausola è essenziale per garantire l’imparzialità degli interventi e la loro conformità all’interesse generale di salvaguardare la pace, piuttosto che all’interesse dei singoli paesi che prendono le armi. Questo dovrebbe essere un principio cardine della legalità internazionale. E invece è stato ripetutamente e apertamente calpestato proprio da quei paesi che sono intervenuti in Libia. Paesi che avevano già condotto in Kossovo, in Afghanistan e in Iraq, interventi violentissimi, privi di autorizzazione Onu e chiaramente finalizzati alla tutela dei loro interessi strategici.
E’ conforme a principi di legalità che chi si è reso responsabile di violazioni così gravi sia autorizzato ad un nuovo intervento militare? Ed è conforme ai più elementari principi di civiltà giuridica che si autorizzi una indeterminata pluralità di soggetti (qualsiasi “stato membro”) a ricorrere alla forza senza dettare alcuna regola precisa sul suo impiego, e senza prevedere alcuna forma di controllo e di sanzione per gli eventuali abusi? Chi verificherà mai quanti civili sono morti sotto le bombe della Nato o sotto il fuoco degli insorti? Chi giudicherà mai gli eventuali responsabili di crimini?
Al di là di ogni questione di legittimità formale, è difficile non vedere come una simile risoluzione sia in conflitto con i più elementari principi del diritto.
Se ce ne fosse bisogno, lo dimostra il solo fatto che la risoluzione stessa è stata gravemente violata, e in molti punti, senza nessuna conseguenza per i responsabili.
Vediamo qualcuno di questi punti.
1) La risoluzione esprimeva nel preambolo la determinazione del Consiglio di Sicurezza “ad assicurare la protezione dei civili e delle aree a popolazione civile [corsivo mio] e il passaggio rapido e senza ostacoli dell’assistenza umanitaria”. Nessuno ha protetto Tawargha, Bani Walid o la stessa Tripoli assediata, e a Sirte si è impedito a lungo perfino alla Croce Rossa l’accesso alla città, in violazione, s’intende, di tutte le convenzioni internazionali in materia.
2) Sempre nel preambolo, la risoluzione richiamava espressamente l’Alto Comitato ad hoc per la Libia istituito dall’Unione Africana il 10 marzo, che è proprio l’organo che visitò la Libia , sotto la guida del presidente sudafricano Jacob Zuma, il 10 aprile, quando la Nato si rifiutò perfino di sospendere i bombardamenti.
3) Al par. 1, la risoluzione richiedeva l’immediata adozione di un cessate il fuoco, cosa che sia la Nato sia gli insorti hanno sempre rifiutato di accettare.
4) Al par. 2. metteva in primo piano l’esigenza di “facilitare il dialogo per approdare alle riforme politiche”, affidandolo ai buoni uffici dell’inviato speciale del Segretario Generale (di cui la Nato si è sempre disinteressata) e al già citato Comitato ad hoc della UA. Dialogo pervicacemente rifiutato dal CNT e dalla Nato, al grido di “Gheddafi deve andarsene”. Inutile dire che un simile obiettivo non era nemmeno lontanamente previsto dalla risoluzione.
5) Il par. 4 autorizzava l’intervento aereo per “proteggere i civili e le aree a popolazione civile”. Questa è la clausola che è stata più gravemente calpestata. L’intervento è stato finalizzato di fatto al sostegno militare degli insorti, che, essendo armati, non si possono certo equiparare a civili: e quando questi hanno minacciato e colpito, come accade oggi a Sirte, civili e “aree a popolazione civile”, nulla è stato fatto per proteggerle. Eppure è ormai evidente che le milizie del CNT hanno compiuto molte e gravi violazioni dei diritti umani: come è stato denunciato, per esempio, dall’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati il 26 agosto (vedi qui), il 13 ottobre dal rapporto Detention Abuses Staining the New Libya di Amnesty International, o il giorno dopo da Mona Rishnawi, alto funzionario ONU per i diritti umani. Per non dire dei saccheggi a mano armata denunciati da Lorenzo Cremonesi. Il fatto è che nessuno può sapere oggi esattamente quante e quali siano state le vittime civili direttamente causate dalle bombe della Nato e dal fuoco degli insorti. E’ probabile, si badi, che non siano innumerevoli. Per fortuna le grandi stragi deliberate nello stile della seconda guerra mondiale non sono più praticabili nel ventunesimo secolo. Ma è chiaro che fra i civili le vittime della Nato non sono state poche. Fra i casi più certi, per esempio, la strage degli undici imam a Brega il 14 maggio; la strage di 15 civili a Sorman il 19 giugno; la strage del mercato a Tawargha il 28 giugno; e la terribile strage di Zlitan il 9 agosto, in cui perirono 85 persone, di cui 33 bambini; mentre resta impossibile accertare quanti civili abbiano perso la vita nell’assedio di Tripoli e in quello di Sirte, sebbene si parli di centinaia. E’ certo per di più che in alcuni casi le forze Nato presero deliberatamente di mira dei civili. Valgano per tutti i due esempi del bombardamento della televisione di stato libica il 30 luglio (un crimine di guerra in violazione delle convenzioni di Ginevra, in part. art. 76, protocollo 1, Quarta Convenzione, nonché della risoluzione Onu 1738), e del bombardamento della casa del figlio di Gheddafi Saif al-Arab il 30 aprile (vedi qui), in cui trovarono la morte tre bambini sotto i tre anni. Sostenere che in entrambi i casi si stavano proteggendo i civili, nel colpire i centri di controllo delle operazioni a loro danno, è davvero un’interpretazione molto ardita.
Ma la cosa più grave, forse, è proprio il fatto che nessuno, oggi, può sapere quante siano state le vittime e i danni causati da una parte e dall’altra. Che non sia stato previsto un apparato di controllo che potesse almeno accertare le eventuali violazioni. Sono stati compiuti delitti, anche da parte di chi avrebbe dovuto impedirli: e nessuno potrà mai accertarli, giudicarli e sanzionarli. Chi chiama questo “legalità”, ha una strana concezione della legge.
6) Al par. 5, la risoluzione “riconosce l’importante ruolo della Lega degli Stati Arabi”. Dopo che questa, pochi giorni dopo l’intervento, si permise di criticarne le modalità, se ne è sentito parlare molto poco.
7) Al par. 16, si prescrive di “impedire l’accesso di personale mercenario armato alla Jamahiriya Araba di Libia”. E’ noto che le potenze intervenute hanno invece inviato mercenari in territorio libico. Tre di questi, di nazionalità italiana, sono stati arrestati e successivamente rilasciati dalle forze governative.
8) Al par. 25 il Consiglio di Sicurezza esorta tutti gli stati a segnalare al Comitato per le sanzioni e ad un apposito Comitato di Esperti, gli eventuali “episodi di mancata ottemperanza” alla risoluzione. Evidentemente nessuno ha segnalato le violazioni di cui sopra, poiché la successiva risoluzione 2009 del 16 settembre, non ne fa alcuna menzione e anzi conferma a tempo indeterminato la missione. Quest’ultima risoluzione è stata adottata mentre erano in corso gli assedi di Sirte e di Bani Walid, ma essa si astiene clamorosamente dal farvi alcun riferimento. La “protezione dei civili” non era più così “necessaria”? E’ lecito concludere che non è esistito nessun meccanismo capace di garantire il rispetto di quanto statuito, nel discutibile modo che si è detto, dallo stesso Consiglio di Sicurezza.
Davanti a tutto questo, la pretesa di Cameron di aver “sempre agito secondo quella risoluzione” ha un sapore di aperta sfacciataggine. Sostenere che l’intervento in Libia sia stato “legale” è semplicemente inverosimile. Come appare patetico chi oggi si scandalizza se Russia e Cina si rifiutano di votare una risoluzione sulla Siria, visto il rischio che sia poi travalicata.
c) Nonostante tutto questo, c’è chi vorrà sostenere che questa guerra, in fin dei conti è stata “giusta”, perché, come ha detto Cameron, “i libici si meritano il diritto di decidere il proprio futuro”, cioè perché è stato rimosso il dittatore che glielo impediva.
Spicca fra tutto, a questo proposito, il roboante peana con cui Bernard-Henri Levy celebrava in agosto la caduta di Tripoli (Corriere della sera, 23.8.2011): “Che cosa muore? Un’antica concezione della sovranità per cui tutti i crimini sono leciti purché abbiano luogo all’interno dei confini di un determinato Stato. Che cosa nasce? L’idea di un’universalità dei diritti che non sia più solo un pio desiderio, ma un obbligo vincolante per tutti coloro che credono seriamente nell’unità del genere umano e nella virtù del diritto d’ingerenza, che ne è il corollario.”
Peccato che il “diritto d’ingerenza” sia categoricamente escluso dal diritto internazionale vigente, nel suo spirito e nella sua lettera. E non in virtù di “un’antica concezione della sovranità”, ma in virtù di una modernissima concezione dei rapporti internazionali, discendente da Erasmo, da Kant e da quel cosmopolitismo occidentale a cui Levy artatamente finge di ispirarsi, che condanna il ricorso alle armi nei rapporti fra stati poiché è capace di coltivare l’idea di un mondo libero dalle guerre e deciso a regolare senza violenza i rapporti politici e umani a tutti i livelli. Noi crediamo davvero nell’unità del genere umano. E proprio per questo non crediamo affatto nel diritto d’ingerenza, che non ne è in alcun modo il corollario.
Teorizzare un presunto “diritto d’ingerenza” significa, in pratica, attribuire ad alcuni stati, le maggiori potenze militari, il potere di giudicare il governo di qualunque stato sia più debole di loro, condannare quel governo senza alcun processo, ed eseguire la sentenza aggredendolo a mano armata per sopprimerlo. E’ improbabile che con questo si imponga la giustizia. E’ più facile che prevalgano gli interessi dei più forti. Levy predica la legge del più forte, fingendo di illudersi che il più forte sia anche il più giusto. “L’universalità dei diritti” imposta con le armi è un bruciante oltraggio all’unità del genere umano: il quale “si merita” un ordinamento planetario savio, equo, condiviso, fondato innanzitutto sulla legittimità e sul ripudio della violenza.
Si doveva dunque ignorare e lasciare inascoltato il grido di libertà che, nel bene e nel male, si era levato a Bengasi, echeggiando quelli di Tunisi e del Cairo? No di certo. Bastava fare quello che indicava la risoluzione ONU: perseguire l’obiettivo di un cessate il fuoco e di un dialogo che portasse semplicemente ad elezioni libere, regolari e generali.
Non sarebbe stato savio, prima di riconoscere il CNT, accertare quanti libici fossero pronti a conferire a questo organismo autoproclamato il potere di decidere il loro futuro? C’era forse da temere che con Gheddafi al potere, le elezioni non fossero libere? Ma non è forse più ragionevole presumere che con una trattativa condotta in quelle condizioni, e con la collaborazione piena di tutti i membri del Consiglio di sicurezza, si sarebbe potuto ottenere un controllo internazionale molto efficace?
Adesso, prima o poi, i libici avranno delle elezioni organizzate e guidate da un organismo non eletto, che ha già dimostrato tutte le intenzioni di tenersi ben stretto il potere. Quanti fossero o siano i libici che volevano Gheddafi, nessuno potrà più saperlo, anche se è evidente che non erano pochi: difficilmente avranno la possibilità di esprimere le loro ragioni, come auspica beatamente la risoluzione 2009, parlando di un processo “inclusivo”. Il controllo internazionale sarà facilmente qualcosa di simile a quello che abbiamo visto in Iraq o in Afghanistan, dove se si parla delle prime elezioni successive al conflitto, tutti scoppiano a ridere alla parola “regolarità”.
Purtroppo, la cosa più probabile è che i libici si ritrovino un governo che non sarà più indipendente dall’Occidente di quanto lo fossero quelli di Mubarak e di Ben Ali. Come ha detto Sergio Romano, che non è esattamente un estremista, questa è stata una guerra “neocoloniale”. E’ difficile dubitarne, assistendo in questi giorni allo spettacolo della corsa dei vincitori al petrolio e alle altre risorse energetiche. Il diritto del popolo libico di decidere il proprio futuro è gravato da pesantissime ipoteche.
Se c’è una lezione che si può ricavare da questa guerra così peculiarmente “legittima” è la stessa che si doveva ricavare dalle guerre del Golfo, del Kossovo, d’Iraq e d’Afghanistan. Il mondo ha pressante bisogno di un nuovo ordinamento internazionale, che torni a coltivare con nuovi strumenti il grande sogno del superamento della guerra, quello che ispirò a suo tempo la creazione dell’Onu.
Sarebbe ora che tutti quelli che nel mondo hanno a cuore la pace si decidessero a mettere al primo posto la ferma rivendicazione di un nuovo diritto planetario, fondato sulla rappresentatività, la legittimazione, la limitazione del potere dei più forti attraverso un sistema di regole solide, eque e condivise, un ordinamento che abbia la forza di garantire il rispetto della legalità e di un nocciolo di principi fondanti riconosciuti e rispettati da tutti. Non un onnipotente governo mondiale, ma un nuovo patto fra gli stati e fra i popoli, che somigli finalmente ad un’autentica costituzione del mondo.
Se vogliamo sul serio che le guerre finiscano, questo è, oggi, l’obiettivo da mettere al centro. Non è una battaglia impossibile. Avrebbe molti potenti alleati.
Forse non sarebbe male ricordare (troppi hanno la memoria corta) l’analogia con la storia di altri dittatori-criminali, anteriormente beniamini delle potenze occidentali: da Saddam Hussein ( e anche l’Iraq di oggi e tremendamente peggiorato, senza per questo lodare Saddam) a Osama bin Laden, ma sono solo due esempi (mentre Arabia Saudita e Yemen rimangono fari di civiltà, come lo era fino all’ultimo Mubarak). Personalmente mi viene da osservare, da tempo, che molti dei più grandi criminali della storia sono morti nel loro letto, e sono considerati tra i grandi della storia: basti ricordare Truman!
RispondiEliminaLast but not least, non mi parrebbe fuori luogo (forse non nel tema della tua analisi) osservare: a) che la guerra in Libia manda anche un avvertimento alle “primavere arabe”; b) mi pare ci sia anche un tentativo di ritorno sulla scena africana-internazionale di Francia e Gran Bretagna dopo lo scacco di Suez del 1956; c) pare a me anche che questa guerra sia stata anche . . . contro l’Italia! Ma questi sono i nostri capolavori internazionali, come quando nel 1999 bombardavamo con la NATO la Zastava-Fiat e la Telecom Serbia).
Angelo Baracca