Nasce adesso, con l'incarico a Giuseppe
Conte, l'avventura del nuovo governo giallo-verde.
Difficile negare che si tratti del
governo più originale di tutta la storia d'Italia. In questo senso
ha ragione il buon Di Maio: è stata una giornata storica. Questo è
forse il governo più atteso alla prova dai tempi lontani di Alcide
De Gasperi.
Ed è atteso fra la gente, direi, più
con benevola curiosità che con accigliata preoccupazione, perfino
fra quella buona metà dei votanti che non aveva scelto né il giallo
né il verde.
A ben guardare, il processo che ha
portato alla sua formazione ha presentato, in barba alle critiche di
tanti pensosi licurghi, alcuni aspetti piuttosto incoraggianti.
Apprezzabile è stata l'idea di prendere le mosse non dalla
negoziazione su una qualche figura di conducator con la sua corte di
arcangeli sitibondi di potere, ma piuttosto da un accordo di
programma che, nonostante l'etichetta riesumata, è stato almeno
qualcosa di più serio dei vesposi “contratti” di berlusconiana
memoria. Già questo basterebbe a tirare un sospiro di sollievo:
forse siamo usciti per sempre da quei tempi funestati dall'incombere
del leader candidato a condurci alla salvezza in virtù dei suoi
poteri sovrumani. In politica il cosa s'intende fare dovrebbe
contare sempre assai di più del chi lo intende fare.
E il giudizio sul cosa, è bene tenerlo
sospeso fino alla prova dei fatti, anche se è chiaro che, in questo
caso, qualunque ragioniere di campagna avrebbe qualche ragione di
inarcare il sopracciglio. Tutto sommato, si può forse sperare che
certe divergenti aspirazioni verdi e gialle finiscano per
neutralizzarsi a vicenda, proteggendoci dagli spropositi più gravi.
Restiamo dunque ad aspettare. Nel
frattempo, tuttavia, non si può non rilevare che nel breve volgere
della sua giornata storica, il suddetto Luigi Di Maio è riuscito a
inanellare una dopo l'altra ben tre originali stranezze che non
dovrebbero passare inosservate.
Prima stranezza: assediato dai
giornalisti, Di Maio dichiara enfaticamente che “questo è un
governo votato”. Governo votato? A quanto pare è diventato di moda
dimenticare che, nella nostra Costituzione, non si eleggono governi,
ma parlamenti. All'interno dei quali si formano maggioranze che
esprimono governi col voto di fiducia. In questa luce, il nuovo
governo non ha nulla di originale: è perfettamente legittimo e
normale. Non è per nulla in linea, al contrario, con la moda a cui
Di Maio presta ossequio. Questo governo non lo ha votato proprio
nessuno. Non gli elettori della Lega, che credevano di scegliere una
coalizione di destra, né gli elettori dei cinquestelle, che si erano
visti presentare una squadra di governo, improbabile ma
completissima, che formava parte integrante della loro proposta
politica. Tutto questo dovrebbe essere evidente anche al più ottuso
ragioniere di campagna. Quel che potrebbe preoccupare è che Di Maio
si senta in diritto di proclamare verità contrarie ad ogni evidenza
confidando che nessuno se ne accorga. In questo rassomiglia vagamente
a Berlusconi, a Renzi, a Trump: non tanto originale.
Seconda stranezza: più tardi,
nuovamente sotto assedio, Di Maio dichiara convinto che “i ministri
li sceglie il presidente della repubblica”. Questa è davvero
originale. La nostra Costituzione non dice affatto che il capo dello
stato sceglie i ministri.
Dice che li nomina su
proposta del capo del governo. Ma il capo dello stato non nomina
proprio nessuno se non è certo che ci sia una maggioranza in
parlamento disposta ad avallare quella nomina col voto di fiducia. La
scelta dei ministri deve essere espressione della volontà del
parlamento e non di quella del capo dello stato: altrimenti saremmo
in America. Di Maio, a quanto pare, non si accorge, per di più, che
la sua originale teoria è in flagrante contrasto con la prima
stranezza di cui sopra. O forse confida che nessuno se ne accorga.
Anche in questo, rassomiglia vagamente a Berlusconi.
Terza
stranezza: è nata la Terza Repubblica. Ohibò! Credevamo di vedere
un governo coraggiosamente appuntato sugli spilli di una maggioranza
piuttosto risicata, potenzialmente inviso a poteri formidabili,
affidato all'incerta garanzia del Quirinale, minacciato dalle furie
dei mercati, destinato a destreggiarsi arditamente fra le speranze e
il baratro del debito, un governo sulla cui durata anche i più
accesi sostenitori esiterebbero a scommettere una fortuna, un governo
chiamato ad essere consapevole di avere davanti sfide durissime, che
richiedono smisurata intelligenza, immensa chiarezza d'intenti,
titanica determinazione. E invece ci si annuncia, prima ancora di
cominciare, che siamo già entrati in una nuova era, come il pugile
che annuncia la vittoria prima ancora di accedere sul ring. Ma, di
grazia, che era è questa? Un'era giallo-verde in cui regnerà
incontrastata la concordia dei leghisti e dei grillini? Un'era in cui
i ministri saranno scelti dal capo dello stato? Un'era in cui i
governi saranno finalmente “votati” come questo? O un'era in cui
saremo tutti ricchi e contenti, liberi finalmente dal bisogno, dalle
tasse, dall'Europa, dalla casta e dai perfidi migranti?
Ma non
è il caso di ironizzare. Questo governo è una cosa seria,
nonostante tutto. I grillini avevano già compiuto un autentico
miracolo, dimostrando che in barba ai poteri forti, in barba al
controllo dei media, in barba a Morgan Stanley e ai torbidi neo-con,
la democrazia vive ancora ed è più forte, e una forza politica nata
dal nulla può aspirare al governo di un paese. Adesso sono chiamati
ad un altro miracolo: ammalati di inguaribile ottimismo, non vogliamo
escludere che ce la possano fare.
In
questa difficile sfida, la fantasia può essere di aiuto: ma ci vuole
soprattutto serietà. La Terza Repubblica sarebbe meglio lasciarla
stare, insieme a tutti i trionfalismi, alle manipolazioni del diritto
e del buon senso, ai discorsi contrari all'evidenza. Queste cose ci
ricordano Renzi, Berlusconi e Donald Trump: proprio nulla di
originale.
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