venerdì 14 ottobre 2016

In omaggio a Bob Dylan premio Nobel: il guerriero la cui forza è non combattere

Hanno dato il premio Nobel a Bob Dylan. Per la letteratura.
Nonostante il suo pessimo carattere, se lo è decisamente meritato.
Per celebrare la memorabile circostanza, presento adesso un'emozionata narrazione scritta in suo onore oltre vent'anni fa. Vale la pena di leggerla. Si chiama: “Il guerriero la cui forza è non combattere”.


IL GUERRIERO LA CUI FORZA E' NON COMBATTERE

Firenze, 2 gennaio, 1993

La storia che mi accingo a raccontare è una storia del tutto inverosimile. Eppure potrebbe essere assolutamente vera. O quasi.
La storia ha inizio a Palermo, e precisamente poco dopo la mezzanotte del 28 dicembre scorso, in un locale tunisino nei vecchi mandamenti, a ridosso della nuova moschea di cui si è da poco dotata la comunità musulmana della città. E' qui che incontro un mio vecchio amico dai capelli rossi, il quale ogni volta che mi vede non manca mai di subissarmi di proposte riguardanti iniziative della più variopinta natura. Poiché il locale è rispettoso del Corano, sediamo davanti ad una tazza di caffè turco e ad un frullato di non so che cosa. In questo caso la proposta principale, o almeno la più accattivante per me, è la seguente: scrivere un racconto ispirato, connesso o dedicato a Bob Dylan per una raccolta di racconti di diversi autori ispirati, connessi o dedicati a Bob Dylan.

Tre giorni dopo, e precisamente la mattina del 31 dicembre, risalgo l'autostrada alla volta di Firenze dopo essere sbarcato a Napoli alle prime luci dell'alba. Avevo cominciato a riflettere sulle canzoni di Dylan fin dal primo mattino: nel buio che precede il sorgere del sole, ero salito sul ponte più alto della nave e, appollaiato al di sopra della prua, avevo visto la costa avvicinarsi e la nave entrare in porto ad attraccare. E là sopra avevo pensato a "Mr. Tambourine", "Hard Rain", "Blowing in the wind", e così via. Volevo trovare una canzone centrale, intorno alla quale organizzare il mio racconto. E ne volevo una di quelle antiche, gloriose, che tutti conoscono.
In base alla pura bellezza della parola e del canto, mi tentava "Mr. Tambourine": ma soltanto per alcuni versi, per lo più quelli che chiudono le strofe, che sono da soli delle gemme inestimabili: far from the twisted reach of crazy sorrow1, per esempio, che cantato tutto d'un fiato fa venire automaticamente i brividi, oppure and but for the sky there are no fences facing, che potrebbe tranquillamente prendere il posto di "In God we trust" sulle monete americane, o diventare il motto di qualche futuro movimento planetarista. O ancora: and the ancient empty street's too dead for dreaming, che è un prodigio di magia della parola, o I'm too weary for my boot heels to go wandering, per non dire dell'indimenticabile let me forget about today until tomorrow.
Ma da questa sarabanda di memorabili endecasillabi non emergeva alla mia mente alcun disegno, alcun filo a cui legare il mio discorso. Volevo qualcosa di più preciso, di più definito...
"The times they're a-changing", per esempio, che diceva qualcosa di molto netto, molto chiaro, oppure "Only a pawn in their game", o addirittura "Masters of war", canzoni che rappresentano tutte un tempo in cui la musica prendeva posizioni forti, lucide, essenziali, e ispirava milioni di persone a fare cose che valeva la pena di fare. Ma a scegliere una di queste, c'era da fare i conti con tutto un mondo, quello da cui canzoni così erano potute nascere, e che avevano contribuito a formare. Una cosa impegnativa veramente, una specie di redde rationem storico di cui non mi sentivo proprio all'altezza e per cui probabilmente i tempi non sono per nulla maturi.
Forse era molto meglio prendere una di quelle canzoni fuori del tempo, eterne, che fanno parte del repertorio di tutti i grandi poeti come Dylan. Una canzone d'amore, per esempio, come "Tomorrow is a long time", quella di but only if my own true love is with me, tenerissima, la cantava anche Rod Stewart...
Non avevo preso nessuna decisione. Sfilando sull'autostrada sotto un cielo disseminato di nuvole alte che sembravano diradarsi verso il nord, meditavo a casaccio su singoli versi, strofe, canzoni, sulle storie che ci stavano dietro, i sogni che si facevano allora, la vita che io stesso facevo a quell'epoca. Stavo pensando ad un verso di "The Chimes of freedom", quello che fa: flashing for the warrior whose strength is not to fight, le campane della libertà che lampeggiano per il guerriero la cui forza è non combattere... Pensavo a come un verso simile porti con sé una sapienza che, sebbene in circolazione da qualche tempo, appartiene ancora al futuro: a come il Medio Oriente di oggi, o la ex Jugoslavia, o la Somalia, avrebbero bisogno di uomini capaci di incarnare una sapienza del genere.

Mi fermo ad una stazione di servizio, nei pressi di Anagni, precisamente. Sono pressappoco le nove e mezzo. Con in mente il guerriero la cui forza è non combattere, vado a prendere un caffè con uno stopposissimo cornetto avvolto in cellophane.
Mentre esco dal bar dell'Autogrill, mi si para dinanzi una visione assolutamente improbabile, quella che rende inverosimile questo racconto. Una ragazza sola, sui venti o venticinque anni, dal volto semplicemente angelico, coi capelli lunghi e lisci che le ricadono sulle spalle. Quello che la rende inverosimile, prima di tutto, è l'insieme del suo abbigliamento, che la fa sembrare uscita fresca fresca proprio dal lontanissimo passato a cui stavo per l'appunto pensando: fine anni Sessanta in America, primi anni Settanta in Europa. Un poncho, anzi un serape, di lana tessuta, tutto a righe e zig zag, evidentemente messicano: e poi un paio di jeans sfrangiati alle caviglie, un braccialetto di cuoio intrecciato, un paio di scarpe di cuoio con le frange pure quelle, un pendaglio al collo con lo yin/yang e il segno della pace, e addirittura una bandana rossa intorno alla fronte, stile, che so io, Patty Pravo.
Ma la cosa ancora più inverosimile è che nel cuore dell'inverno, alla fine dell'anno di grazia 1992, bellissima e sola, stesse facendo niente meno che l'autostop. Infatti, nonostante il mio abbigliamento quanto mai serioso da professore di ritorno da un congresso, mi si rivolge dandomi del tu, con un bel sorriso tutto tranquillo e sereno, e fa: "Vai mica a Firenze per caso?"
A questo punto devo precisare che io sono un tipo che è sempre stato in difficoltà davanti agli eccessi di bellezza. Anzi, diciamo pure che mi paralizzano. Forse ho uno spirito piccino, che tende a restare abbagliato e dunque a tirarsi indietro, addirittura a guardare da un'altra parte. O forse il fatto è che la bellezza eccessiva mi causa un'emozione eccessiva, alla quale preferisco sottrarmi. Anche se ormai, alla bella età di quarant'anni, ho imparato a prendere queste cose con la necessaria leggerezza, ogni nuovo incontro con la vera bellezza rimane per me circonfuso da un'aura di impalpabile pericolo.
E questa figliola era dotata appunto di una di quelle bellezze luminose, limpide, che sembrano circondate da un'aureola, capaci di mettere in soggezione ben altri stomaci che il mio. Aveva nei modi un'eleganza placida, ma non era di quei tipi freddi, piuttosto incorporei, che catturano l'anima ma lasciano del tutto indifferente il basso ventre. Anzi, sotto il serape si intravedevano dei fianchi e dei seni assolutamente concupiscibili, che a nessun occhio maschile sarebbero potuti sfuggire.
Sento il mio stupido cuore battere, come era inevitabile, alcuni colpi molto violenti dentro la cassa toracica. Faccio l'unica cosa che possa fare: prendo un atteggiamento burbero, come quello che deve prendere il professore di cui sopra con un allievo che si presenti impreparato. Come se fossi vittima di un gran rompimento di scatole, domando:
"Perché?"
"No, niente, volevo un passaggio...", risponde lei, un po' offesa dalla mia messinscena.
"Che bagaglio hai?" chiedo, tanto per elevare un altro ostacolo.
"Niente, risponde lei, questa borsa." Aveva una specie di sacca di tela di iuta che portava appesa alla spalla destra, ornata solo da un ricamo multicolore con la scritta "Rainbow warrior".
Guerriero dell'arcobaleno? Vaneggiando un improbabile ponte fra la realtà e le mie personali fantasticherie, cerco di immaginare in lei il guerriero la cui forza è non combattere. Scaccio il pensiero idiota con un malriuscito sogghigno e dico: "Andiamo."
"Ti dispiace se mi metto di dietro?" domanda entrando in macchina: e si infila direttamente nel sedile posteriore.
Fedele alla mia maschera di burbero professore di liceo, prendo la strada senza aprire bocca. Con gli occhi che tutti abbiamo dietro la nuca, vedo che si toglie le scarpe, slacciandole con cura, e si mette rannicchiata coi piedi sul sedile e le spalle al finestrino di destra.
Restiamo in silenzio per un bel pezzo. Sulla nostra destra si vedevano emergere sopra le nuvole monti incappucciati di neve. Le cime della dorsale d'Appennino che apparivano e sparivano fra le brume brillavano gelide di ghiaccio come fossero montagne dell'Alaska viste dall'alto di un aereo in volo sulla rotta polare. Salivamo verso il freddo.
Ero tornato a pensare al mio racconto. Avevo in mente "The times they're a-changing". Pensavo: come prenderla, semmai? Se volessi fare la parte del giornalista o del parlamentare, di quello che vede talmente da vicino le cose vicine da non avere occhi per quelle più lontane, potrei metterla a servizio della cronaca. Dire che è adesso che i tempi stanno cambiando. Guardando a quello che sta succedendo in Italia oggi, vedendo il tramonto forse ormai inesorabile degli uomini che hanno incarnato l'arroganza del potere, amici di mafiosi, divoratori di danaro pubblico, persecutori di magistrati troppo scomodi, forse anche mandanti di omicidi, vedendo finalmente un Gelli in pericolo, un Riina braccato, un Craxi sull'orlo della galera, si può davvero dire che i tempi stanno cambiando: che chi era primo sta diventando ultimo, che la vecchia strada sta proprio invecchiando, che la battaglia ha scosso le finestre e ha fatto tremare le pareti, che c'è un ordine che rapidamente sta svanendo, che quello che era presente sta diventando passato.
Ma la strada non era buona: la caduta dei partitocrati o degli amici di Cosa Nostra, se anche dovesse arrivare davvero, è poca cosa di fronte al cambiamento che aveva in mente, allora, Bob Dylan. Quella che oggi può sembrare al miope una grande trasformazione è solo una piccola onda, un vago stormire di fronda in confronto al pensiero che allora occupava la sua e la nostra immaginazione. Mi veniva in mente uno haiku di Borges: "E' un impero/ quella luce che si spegne? / O una lucciola?"
Ma si poteva prendere un'altra posizione. Sostenere che dal giorno in cui fu scritta quella canzone fino ad oggi, i tempi non hanno fatto altro che cambiare, sono entrati in un processo di mutamento lungo, profondo, forse in qualche modo misterioso, di cui ancora non si vede all'orizzonte il compimento. In questo senso, chi perdeva non ha ancora vinto, chi era lento non è ancora particolarmente veloce, la battaglia sta ancora scuotendo le finestre e facendo tremare le pareti.
Anche questo, però, non è vero. Più che una battaglia che scuote le mura, c'è una grande confusione sotto il cielo, le parole di Dylan non valgono affatto per oggi, oggi non si riesce a capire tanto bene chi sono i buoni e chi sono i cattivi, cosa è giusto e che cosa è sbagliato, cosa è vero e cosa è falso, è per questo che non si combatte, non perché abbiamo la forza del guerriero che sa dove andare.
Ero immerso in questi poco fertili pensieri, quando l'angelica presenza del sedile posteriore, che era rimasta fino ad allora in perfetto silenzio, fa sentire la sua voce per chiedermi: "Ma tu viaggi così, senza musica?"
"Già", rispondo laconicamente.
"Ti dispiace se suono io?"
"Ma figurati."
Tira fuori dalla sua sacca un oggetto di piccole dimensioni, evidentemente un'armonica. Vale la pena di precisare a questo punto che la sua sacca, come tutto il suo corpo ed il suo abbigliamento, capelli compresi, brillava della più assoluta pulizia, come fosse stata lavata la sera prima. In questo, l'inverosimile figliola non somigliava affatto a quello che sarebbe stato il suo avatar di vent'anni prima. E' chiaro che nei primi anni Settanta, una ragazza del genere sarebbe stata tutta sporca della polvere di cui amavano intridersi quelli che ascoltavano Bob Dylan. Avevo visto da molto poco un filmato integrale della performance di Jimi Hendrix a Woodstock: i primi piani della sua mano sinistra alla chitarra mostravano unghie zeppe di nero, le inquadrature lunghe abiti sporchi, capelli appiccicosi, un corpo non lavato, come si usava allora. Lei, invece, uno specchio. La faccia, acqua e sapone: unico trucco, il kajal, che è una cosa che a me fa venire un tuffo al cuore anche se me lo metto io stesso e mi guardo allo specchio, figurarsi addosso a lei.
Comunque, torniamo ai fatti. Tira fuori quest'armonica e si mette a suonare.
Agghiaccio. Ancora l'inverosimile. La favola s'intreccia col reale. Non credo alle mie orecchie sbalordite.
Il suono che esce dalle sue labbra attraverso l'armonica, di primo acchito, è la melodia di "When the ship comes in". Quella che fa: "Oh, the time will come up when the wind will stop / And the breeze will cease to be breathing..." Rimango ad ascoltare praticamente paralizzato mentre lei declina l'intera strofa con un brio pronunciato quanto discreto. Ma la paralisi non è sufficiente ad impedirmi di entrare sul verso finale con quella chiusa grandiosa, spropositatamente messianica, che fa "...and the morning will be breaking."
"La sai?" fa lei, staccandosi l'armonica dalla bocca.
"Eh, già", concedo.
"Allora canta" dice, e riparte a suonare.
Così mi trovo a intonare seguendo l'armonica la storia del vento che si ferma, della brezza che sospende il suo respiro come il vuoto che precede la tempesta, del mare che si apre, della nave che entra in porto mentre tremano le sabbie della riva, il vento infuria ed irrompe la luce del mattino.
"Grandioso," dico, "veramente biblico. Sembra uno spiritual."
"La sai ancora?" fa lei, "Continua."
Continuo:

"And the words they use
For to get the ship confused
Will not be understood as they're a-spoken
For the chains of the sea
Will have busted in the night
And be buried at the bottom of the o-ocean."

"Formidabile," commento. "Le parole che useranno per confondere, non saranno capite da chi ascolta! Ma tu lo sai di che cosa parla questa canzone?"
"Sì", risponde.
"Ma lo sai l'inglese?"
"Sì."
"E di cosa parla secondo te?"
"Della Rivoluzione." Lo dice proprio così, con la R maiuscola, ma senza la minima enfasi. Aggiunge: "Canta ancora." E riparte.

"A song will lift
As the mainsail shifts
And the boat drifts on to the shoreline
And the sun will respect
Every face on the deck
The hour when the ship comes in.

Fino a:

"And the ship's wise men
Will remind you once again
That the whole wide world is watching."

"Grandioso", mi entusiasmo sempre più stolidamente, "questi saggi che scendono dalla nave, e il tappeto che si srotola, e il canto che si leva e il sole che rispetta tutte le facce che illumina... Sembra una specie di salmo... E il più bello viene adesso, quella dei nemici che balzano dal letto, si pizzicano per vedere se è reale, strillano, si arrendono con le braccia levate, ma noi gli gridiamo dalla prora: your days are numbered!"
"Vai", fa lei, e riprende a suonare.

Concludiamo alla grande, coi nemici che sprofondano come il Faraone nelle acque del Mar Rosso. Siamo a Orvieto, pressappoco.
"Ma come ti è venuta in mente questa canzone?"
"Boh, così. Mi piace Bob Dylan."
"Ma questa è una canzone che non sa nessuno."
"A me piacciono queste canzoni qui, di Dylan, quelle politiche, epiche, antiche."
E qui riprende in bocca l'armonica e si mette a fare una specie di rassegna degli attacchi di una serie di canzoni, per la precisione, nell'ordine: "With God on our side", "Oxford Town", "Hollis Brown", "Blowin' in the wind", "Hard Rain's a-gonna fall", "Only a pawn in their game", per concludere, guarda caso, con "The times they're a-changing".
"Scusami," le chiedo quando finisce "fammi capire una cosa. Ma a te che ti dicono queste canzoni? Cosa sei, di Rifondazione Comunista? Tu stai aspettando una nave che arriva, vomita un po' di uomini saggi, schiaccia il diabolico avversario e illumina tutte le facce col sole dell'avvenire?"
"Noooo!" ride, "Che c'entra? Ma per chi mi hai preso? A me mi piacciono perché sono romantiche, perché sono di un'altra epoca, un'epoca che io mi immagino splendida, accesa, avventurosa, piena di cuore e di speranza, un'epoca in cui tutto sembrava possibile, in cui i sogni più spericolati sembravano sul punto di diventare realtà. Magari sarà una mia fantasia, ma la materia si presta, perciò mi posso illudere quanto mi pare..."
"Ah, dico io sempre più stupefatto, allora non aspetti nessuna nave?"
"No, non è che non l'aspetto. La vedo più tranquilla. Anzi, se lo vuoi sapere, penso che in realtà la nave sia già sbarcata, senza che nessuno se ne sia accorto."
"Come già sbarcata? In che senso?"
"Ma sì, quello che sognava Dylan non sarebbe mai potuto succedere. Che tappeti? Che canti? Che nemici? Qui il nemico mica lo acchiappi per la gola, il nemico è una cosa complicata, a volte ti viene il dubbio di avercelo dentro tu stesso, il nemico..."
"No, continua, io preferisco pensare che la nave è già arrivata, che i suoi uomini hanno messo piede a terra senza rendersi conto loro stessi di quello che stava succedendo. Alcuni di loro non sono nemmeno consapevoli della missione che hanno da compiere, alcuni si sono già dimenticati di esserci stati, su quella nave. Così me l'immagino io, per lo meno. Si aggirano fra di noi non visti, o quanto meno non riconosciuti. Non affondano nessuno, non ammazzano, non distruggono nulla. Ma in silenzio piantano pali, portano vasi da fiori, riaprono vecchi sentieri, riparano orologi, rimuovono recinti, segnali stradali, vecchie leggi, funzionari sospetti, pregiudizi balordi, a poco a poco si insinuano nel mondo e lo trasformano, fino a quando lo renderanno irriconoscibile. Se Dylan stesso fosse vivo oggi, sono sicura che già ora non lo riconoscerebbe."
"Ma Dylan è vivo! Ci mancherebbe fosse morto pure lui, con tutti quelli che sono morti quest'anno!"
Davvero?” fa lei, "Chi l'avrebbe mai detto?", dimostrandosi ancora più inverosimile di quanto si potesse immaginare.

Basta. Siamo arrivati a Firenze poco prima dell'una. Faceva un freddo veramente polare. Le ho offerto un panino a casa mia. E' venuta. E' rimasta fino al tramonto. Poi è andata via, senza dirmi di dov'era né dove stava andando, lasciandosi dietro, inverosimilmente, questa storia del tutto inverosimile.


(1) Chiedo scusa ai tanti che non padroneggiano la lingua di Walt Whitman, ma buona parte dei versi qui citati sono davvero ardui da tradurre senza strapazzarli. Proverò a tradurli in nota quando ne avrò il tempo. Per adesso, intuire, indovinare o rassegnarsi.


_______________________


Questo racconto fu scritto il 2 gennaio del 1993 su richiesta di un grande editore italiano che intendeva pubblicare una raccolta di pezzi di vari autori dedicati a Bob Dylan. La raccolta non fu mai pubblicata perché, mi disse allora il curatore, ben pochi dei testi pervenuti erano belli come il mio. Non so se disse lo stesso a tutti gli altri.









3 commenti:

  1. Beh! Alberto non ho avuto modo di leggere gli altri racconti ma devo dire che il tuo mi è piaciuto molto. Veramente molto bello!

    RispondiElimina
  2. bello rileggerlo, bello ritrovarlo... sì, il progetto del libro ("Simple twists of fate") di cui eravamo curatore e ideatori Luigi Ghirri e io, non andò in porto perché lui sparì, purtroppo. Ma restiamo dolcemente dylaniati, presenti o assenti che sembriamo... Ciao, Alberto, a presto, beppe s.

    RispondiElimina