Agli occhi di qualunque osservatore disincantato, quel che è
seguito in Italia alla condanna in Cassazione di Silvio Berlusconi per il
processo Mediaset dovrebbe avere il sapore di una sorta di delirio collettivo.
Nella rappresentazione dei media è passato del tutto in secondo piano il fatto che più di tutti dovrebbe interessare un’opinione pubblica accorta e sana: il reato di Silvio Berlusconi. L’ex-cavaliere ha orchestrato una gigantesca ruberia ai danni dello stato, cioè di tutti gli italiani. E’ stato scoperto. La sua colpa è stata dimostrata in tre gradi di giudizio ed è stato condannato, ad una pena tutto sommato irrisoria in paragone alle centinaia di milioni di euro in cui si misura l’entità della frode.
Ma tutto questo è caduto nell’ombra. Su cosa esattamente
abbia commesso Berlusconi gli italiani sono stati informati a stento. C’è da
giurare che il medio spettatore di telegiornali sarebbe in grave difficoltà a
spiegare di cosa si tratta, perché nessuno glielo ha raccontato.
Invece siamo stati subissati di notizie sulle reazioni alla
sentenza da parte di Berlusconi e di tutti i suoi accoliti, falchi, colombe,
galletti e galline. Berlusconi si dichiara innocente. Berlusconi si dichiara
perseguitato dalla magistratura. Berlusconi pretende dai suoi avversari
politici una “soluzione” che garantisca la sua “agibilità politica”.
Il solo fatto che un uomo che si è reso responsabile di
quella gigantesca ruberia possa pretendere ancora di candidarsi a gestire la
cosa comune dovrebbe bastare a suscitare la più ardente indignazione. Invece
questo è l’argomento all’ordine del giorno, come se fosse la cosa più normale
del mondo.
E come viene giustificata una simile assurda pretesa? Non
certo accennando a dimostrare l’innocenza sfacciatamente proclamata, che
sarebbe impresa impossibile. No, Berlusconi dev’essere salvato perché “rappresenta
dieci milioni di italiani”, lo ha gridato e sbraitato in testa a tutti la
spavalda Daniela Santanché, donna tanto povera di grazia quanto è ricca di non
celata cattiveria. Vorrei che un qualche altro spavaldo, davanti a questo
impresentabile argomento, avesse il coraggio di rispondere: ma se davvero ci
sono dieci milioni di italiani che ancora vogliono Berlusconi al potere, i casi
sono due, o credono veramente che sia innocente, e allora sono dei grulli buoni
soltanto a farsi infinocchiare, oppure sono convinti che vada benissimo se
abbiamo a capo del governo un maestro di false fatturazioni, che vuoi che sia,
lo hanno fatto milioni di italiani, forse appunto dieci.
In ogni caso quei milioni hanno torto marcio, questa è la
pura verità. Come evidentemente ritengono gli altri trentasette milioni di elettori che di Berlusconi non ne possono
più.
Ma la cosa più
inquietante non è questa.
Ciò che è più inquietante in questa storia è qualcosa che
sembra sfuggire a quasi tutti. E’ il fatto che la sfrontata rivendicazione di
questa “agibilità politica” non si fonda semplicemente sulla celebrazione della
personale posizione di Berlusconi come leader di una specie di partito. Si
fonda su tutta una concezione politica secondo la quale chi esercita il potere
deve essere, in virtù del mandato popolare che lo ha eletto, svincolato da qualsiasi
condizionamento della sua sovrana volontà, fino ad innalzarlo al di sopra della
legge, dunque di ogni giudice.
Questa concezione non è un disegno occulto. E’ stata
apertamente proclamata da Silvio Berlusconi e da tutti i suoi accoliti cantanti
ormai da decenni.
Appena tre giorni fa, la ha ribadita in maniera chiarissima
ai microfoni di RadioUno una triste emula della trista Santanché, l’eurodeputata
Pdl Lara Comi. Si tratta, ha detto testualmente, di “garantire l’autonomia
della politica dal potere giudiziario”. Il buon conduttore della trasmissione
non ha dato alcun segno di accorgersi dell’enormità di una simile
dichiarazione.
La signora Lara Comi aveva appena proclamato l’esatto
contrario di uno dei principi fondamentali su cui si basa la democrazia
contemporanea. Da circa tre secoli a questa parte la costruzione delle
istituzioni democratiche si è fondata sulla battaglia per garantire l’autonomia
del potere giudiziario dalla politica. E non per caso. Ma perché il primo
pilastro su cui si fonda la democrazia, prima ancora del principio di
rappresentanza, è il concetto che chi esercita il potere deve essere sottoposto
alla legge, come e più ancora di qualsiasi altro cittadino. E’ quello che si
chiama rule of law, la supremazia
della legge, fondamento dello stato di diritto. Non è semplicemente una
questione di uguaglianza. E’ qualcosa di più fondamentale, è la garanzia contro
l’eventuale abuso del potere, è il principio che ha situato il potere al di sotto della collettività su cui si
esercita, anziché al di sopra come era sempre stato. Questo è il fondamento
della democrazia: e questo è quello contro cui si è sempre battuto Silvio
Berlusconi.
E’ triste che tutto ciò sia stato scambiato per una semplice
forma di “populismo”. Questo non è populismo, è una concezione radicalmente
eversiva.
Se personaggi come Giorgio Napolitano si rendessero conto di
tutto questo, si sarebbero guardati come la peste dal metter su un governo in
compagnia di un simile eversore. Invece lo hanno fatto: e addirittura non
escludono di concordare una riforma dell’intero sistema giudiziario con chi
coltiva simili propositi. Per fortuna una tale sciagura non appare fra le cose
più probabili. Ma intanto Berlusconi ha in mano le sorti del governo e il
destino del paese dipende dai calcoli cinici e bari di un despota fallito e
stralunato che nessuno è capace di costringere a vergognarsi di quello che ha
fatto.
Viviamo in un delirio collettivo, domandandoci quand’è che
finirà.
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