Il cooperante palermitano Giovanni Lo
Porto è morto fra i monti del Nord Waziristan, vittima innocente di
un drone americano. Il caso è triste, questa morte ci addolora. Ma
c'è qualcosa di ancora più triste e doloroso in questa storia.
Da oltre un decennio i droni mietono
vittime innocenti. Nessuno sa quante siano esattamente. Non ci sono
numeri ufficiali e le stime disponibili variano formidabilmente da
fonte a fonte. Ci sono stime di parte americana che parlano di 604
vittime civili, 167 sotto Bush e 437 sotto Obama. Ma tutti sanno che
sono numeri ampiamente sottostimati. In un rapporto dell'ottobre
2013, Amnesty International elencava non meno di 900 civili uccisi.
Amnesty “teme seriamente” che questi attacchi “abbiano violato
la proibizione dell'arbitraria privazione della vita e possano
configurare crimini di guerra o esecuzioni stragiudiziali”.
Linguaggio fin troppo cauto, se si considera che Lindsey Graham, un
senatore americano ben informato, ha parlato oltre due anni fa, nel
febbraio 2013, di 4700 vittime, mentre ci sono stime che parlano di
un rapporto medio di 1 a 10 fra militanti uccisi ed estranei colpiti
per caso: il che porterebbe a migliaia il numero di innocenti
sterminati. Speriamo che non sia vero.
Quello che è certo è che gli attacchi
vengono spesso ordinati in base ad informazioni approssimative, senza
conoscere neppure i nomi dei presunti militanti presi di mira.
Gli episodi raccapriccianti sono
innumerevoli. Bastino un paio di esempi. Nel gennaio 2006 un attacco
contro il villaggio di Damdola in Bajaur, mirato a vuoto contro il
vice di Bin Laden Ayman al-Zawahiri, uccideva centoventuno innocenti,
di cui 72 erano bambini (fonte: Mario Platero, Il Sole 24ore,
24.4.2015). Il 17 marzo 2011, proprio nel villaggio di Datta Khel
dove ha perso la vita Giovanni Lo Porto, un attacco di droni
americani colpiva in pieno un'assemblea di anziani convocata dal
governo, uccidendo in un sol colpo 42 civili, uno solo dei quali fu
successivamente identificato come affiliato ai Taleban.
Ma, stando a quanto si sente in questi
giorni, si direbbe che tutto questo non ci deve riguardare. Noi
dobbiamo piangere solo Giovanni Lo Porto. Perché? Ma perché siamo
italiani, naturalmente. Gli altri morti non sono nostri. Per loro non
suona la campana.
Ciò che con questo si dà per scontato
è in realtà una logica barbara, tipica delle più arcaiche comunità
primitive. E' la logica del cerchio dell'etica. Il cerchio dell'etica
è un confine sociologico oltre il quale le norme morali che regolano
la nostra condotta non trovano più applicazione. Quelle norme, quel
sentire profondo, per cui è esecrabile l'uccisione di un innocente,
valgono, pesano, mordono, solo quando la vittima fa parte della
cerchia ben delimitata di chi parla la nostra lingua, è nato fra
noi, condivide il nostro modo di comportarsi e di pensare: è membro
del nostro parentado, della nostra più ampia famiglia. Di là dal
cerchio dell'etica, il resto dell'umanità non fa parte di questo
“noi”, dunque non è nostro compito curarcene. Lo Porto era
nostro, piangiamolo: non sono nostri quei settantadue bambini.
Quello che è stupefacente è che una
simile logica non sarebbe mai esplicitamente proclamata dalla
stragrande maggioranza degli italiani. E' in contrasto con la morale
cristiana, è in contrasto con l'internazionalismo della sinistra, è
in contrasto con tutto quello che ci hanno insegnato in chiesa e a
scuola. E' in contrasto col sentire comune, come dimostra la
prontezza con cui ci siamo addolorati, appena pochi giorni fa, per
quegli ottocento africani annegati nel mare.
Ma quando si tratta di droni, quando si
tratta di strumenti di guerra, questa è la logica che dobbiamo
adottare, la logica che i media ci trasmettono e ci impongono. Guai
se ci mostrassero i volti delle madri, dei figli, dei fratelli di
tutte quelle vittime innocenti. Guai se ci facessero vedere i segni
di quelle stragi. Potremmo indignarci anche noi, come il 97% dei
pakistani.
Potremmo concludere che gli attacchi
dei droni, se anche colpissero a segno, non sono altro che condanne a
morte senza alcuna traccia di processo, senza alcuna possibilità di
difesa, senza bisogno di alcuna prova di colpevolezza: la linea
ufficiale è che basta il “ragionevole sospetto” della presenza
del “nemico” perché l'attacco sia autorizzato. E, dato lo
strumento che utilizza, la condanna a morte si estende, come lieve
incidente inevitabile, a chiunque si ritrovi nei paraggi.
E' la guerra, dicono ministri e
generali, quando qualcuno glielo fa osservare. La guerra è appunto
una cosa orribile, ma in questo caso non c'entra nulla. Non c'è
nessuna guerra in corso contro il Pakistan. E in Pakistan il
parlamento ha approvato risoluzioni che chiedono la fine degli
attacchi, i tribunali li hanno condannati, il governo ha chiesto e
ingiunto a più riprese che si mettesse fine a queste azioni cieche e
scriteriate, che hanno come primo effetto solo quello di incoraggiare
la lotta armata, di spingere sempre più giovani alla ribellione e
alla violenza e di accendere i sentimenti antiamericani nel paese,
quando ci sarebbe tremendo bisogno, al contrario, di una
determinazione generale e corale a stroncare la violenza dei
fanatici: ma tutto questo senza risultati.
Obama ha chiesto scusa per la morte di
Giovanni Lo Porto. Invano aspetteremo le sue scuse per la morte di
tutti gli altri. Per loro non suona la campana.
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