sabato 25 aprile 2015

In morte di Giovanni Lo Porto: per chi non suona la campana

Il cooperante palermitano Giovanni Lo Porto è morto fra i monti del Nord Waziristan, vittima innocente di un drone americano. Il caso è triste, questa morte ci addolora. Ma c'è qualcosa di ancora più triste e doloroso in questa storia.
E' il fatto che si dia quasi per scontato che noi italiani ci si debba addolorare solamente quando muore un italiano. Si direbbe che il paese si accorga solo ora dell'immane tragedia dei droni, che da oltre un decennio tormenta e indigna le coscienze di tutti i pakistani e di quanti, in tutto il mondo, hanno occhi per vedere e orecchie per intendere.
Da oltre un decennio i droni mietono vittime innocenti. Nessuno sa quante siano esattamente. Non ci sono numeri ufficiali e le stime disponibili variano formidabilmente da fonte a fonte. Ci sono stime di parte americana che parlano di 604 vittime civili, 167 sotto Bush e 437 sotto Obama. Ma tutti sanno che sono numeri ampiamente sottostimati. In un rapporto dell'ottobre 2013, Amnesty International elencava non meno di 900 civili uccisi. Amnesty “teme seriamente” che questi attacchi “abbiano violato la proibizione dell'arbitraria privazione della vita e possano configurare crimini di guerra o esecuzioni stragiudiziali”. Linguaggio fin troppo cauto, se si considera che Lindsey Graham, un senatore americano ben informato, ha parlato oltre due anni fa, nel febbraio 2013, di 4700 vittime, mentre ci sono stime che parlano di un rapporto medio di 1 a 10 fra militanti uccisi ed estranei colpiti per caso: il che porterebbe a migliaia il numero di innocenti sterminati. Speriamo che non sia vero.
Quello che è certo è che gli attacchi vengono spesso ordinati in base ad informazioni approssimative, senza conoscere neppure i nomi dei presunti militanti presi di mira.
Gli episodi raccapriccianti sono innumerevoli. Bastino un paio di esempi. Nel gennaio 2006 un attacco contro il villaggio di Damdola in Bajaur, mirato a vuoto contro il vice di Bin Laden Ayman al-Zawahiri, uccideva centoventuno innocenti, di cui 72 erano bambini (fonte: Mario Platero, Il Sole 24ore, 24.4.2015). Il 17 marzo 2011, proprio nel villaggio di Datta Khel dove ha perso la vita Giovanni Lo Porto, un attacco di droni americani colpiva in pieno un'assemblea di anziani convocata dal governo, uccidendo in un sol colpo 42 civili, uno solo dei quali fu successivamente identificato come affiliato ai Taleban.
Ma, stando a quanto si sente in questi giorni, si direbbe che tutto questo non ci deve riguardare. Noi dobbiamo piangere solo Giovanni Lo Porto. Perché? Ma perché siamo italiani, naturalmente. Gli altri morti non sono nostri. Per loro non suona la campana.
Ciò che con questo si dà per scontato è in realtà una logica barbara, tipica delle più arcaiche comunità primitive. E' la logica del cerchio dell'etica. Il cerchio dell'etica è un confine sociologico oltre il quale le norme morali che regolano la nostra condotta non trovano più applicazione. Quelle norme, quel sentire profondo, per cui è esecrabile l'uccisione di un innocente, valgono, pesano, mordono, solo quando la vittima fa parte della cerchia ben delimitata di chi parla la nostra lingua, è nato fra noi, condivide il nostro modo di comportarsi e di pensare: è membro del nostro parentado, della nostra più ampia famiglia. Di là dal cerchio dell'etica, il resto dell'umanità non fa parte di questo “noi”, dunque non è nostro compito curarcene. Lo Porto era nostro, piangiamolo: non sono nostri quei settantadue bambini.
Quello che è stupefacente è che una simile logica non sarebbe mai esplicitamente proclamata dalla stragrande maggioranza degli italiani. E' in contrasto con la morale cristiana, è in contrasto con l'internazionalismo della sinistra, è in contrasto con tutto quello che ci hanno insegnato in chiesa e a scuola. E' in contrasto col sentire comune, come dimostra la prontezza con cui ci siamo addolorati, appena pochi giorni fa, per quegli ottocento africani annegati nel mare.
Ma quando si tratta di droni, quando si tratta di strumenti di guerra, questa è la logica che dobbiamo adottare, la logica che i media ci trasmettono e ci impongono. Guai se ci mostrassero i volti delle madri, dei figli, dei fratelli di tutte quelle vittime innocenti. Guai se ci facessero vedere i segni di quelle stragi. Potremmo indignarci anche noi, come il 97% dei pakistani.
Potremmo concludere che gli attacchi dei droni, se anche colpissero a segno, non sono altro che condanne a morte senza alcuna traccia di processo, senza alcuna possibilità di difesa, senza bisogno di alcuna prova di colpevolezza: la linea ufficiale è che basta il “ragionevole sospetto” della presenza del “nemico” perché l'attacco sia autorizzato. E, dato lo strumento che utilizza, la condanna a morte si estende, come lieve incidente inevitabile, a chiunque si ritrovi nei paraggi.
E' la guerra, dicono ministri e generali, quando qualcuno glielo fa osservare. La guerra è appunto una cosa orribile, ma in questo caso non c'entra nulla. Non c'è nessuna guerra in corso contro il Pakistan. E in Pakistan il parlamento ha approvato risoluzioni che chiedono la fine degli attacchi, i tribunali li hanno condannati, il governo ha chiesto e ingiunto a più riprese che si mettesse fine a queste azioni cieche e scriteriate, che hanno come primo effetto solo quello di incoraggiare la lotta armata, di spingere sempre più giovani alla ribellione e alla violenza e di accendere i sentimenti antiamericani nel paese, quando ci sarebbe tremendo bisogno, al contrario, di una determinazione generale e corale a stroncare la violenza dei fanatici: ma tutto questo senza risultati.
Obama ha chiesto scusa per la morte di Giovanni Lo Porto. Invano aspetteremo le sue scuse per la morte di tutti gli altri. Per loro non suona la campana.



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