Dai Kalasha ho
sentito invocare dèi pagani, ho visto donne dal volto dipinto e
uomini coi fiori nel cappello, ho visto danze sacre durare dalla sera
fino all'alba,
ho ammirato foreste maestose di cedri himalayani
svettanti come torri verso il cielo, dalle mani di chi l'aveva fatto
ho preso il pane caldo cotto al fuoco nel centro della casa, ho visto
in un deserto di pietraie il lago misterioso delle fate, ho visto
uomini dormire abbracciati alle capre, ho visto tessere un vestito
per un mese, ho guardato lo sciamano andare in trance per ripetere la
voce degli dèi, ho bevuto vino chiaro spremuto dalle uve a gambe
nude, ho visto gente capace di digiunare, ho ascoltato gli anziani
cantare con voce stregata le gesta favolose degli avi, dalle loro
labbra ho sentito narrare i miti dell'era primordiale, ho visto un
uomo che ha ucciso un leopardo, ho assistito all'ecatombe delle capre
davanti all'altare di Sajjigor, ho visto famiglie giocarsi le loro
ricchezze per donare da mangiare e da bere per giorni a centinaia di
persone, ho sentito nel mese di Sharu le note del flauto incantare la
valle, ho visto pastori arrampicarsi a mani nude su pareti di roccia
verticali con l'abisso del vuoto sotto i piedi, ho visto donne e
uomini capaci di trastullarsi coi bambini e ho visto bambini che non
avevano nulla ed erano capaci di giocare.
I Kalasha, per chi
non lo sapesse, sono gli ultimi pagani indoeuropei, che vivono fra i
monti dello Hindu Kush: dei quali mi sono occupato per tutta la vita,
da quando su di loro scrissi la tesi in antropologia per Carlo Tullio
Altan. Sono stato invitato a parlare di loro ad Atri, presso Pescara,
il prossimo 18 luglio. Mi hanno chiesto di scrivere un testo breve
per un pannello di fotografie e questo è quanto ho scritto.
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