Se c'è una scienza che, in questi ultimi decenni così cruciali per il destino del pianeta, avrebbe avuto la potenzialità, anzi il compito, anzi l'obbligo, di dare un grande contributo alla causa della pace fra i popoli e alla critica del Potere costituito, questa scienza è l'antropologia, che si era dedicata anima e corpo alla formidabile impresa di decifrare e comprendere la diversità culturale.
La sua meravigliata contemplazione delle culture estranee alla tradizione occidentale poteva essere, doveva essere, la chiave di volta per diagnosticare la malattia dell'Occidente e spianare la strada alla sua guarigione.
Invece, con qualche bella ma debole eccezione, l'antropologia si è ripiegata su stessa. Anziché criticare edifici altamente criticabili, come l'Ortodossia Economica o il Realismo Geopolitico, sì è dedicata con furioso accanimento a demolire, pardon a “decostruire”, se stessa: riducendo le sue più preziose conquiste, fra cui il concetto stesso di cultura, ad un dolente ammasso di macerie.
Pavoneggiandosi nel culto di linguaggi imperscrutabili, è riuscita a rendere se stessa incomprensibile al resto del mondo, quando la sua missione sarebbe stata quella di rendere ogni mondo comprensibile agli altri.
E adesso gli artefici di questo massacro si domandano come immaginare per la loro disciplina, che ormai non sanno più che cosa sia, “un esito diverso – dramatizziamo un po' – da quello della morte per asfissia”.
E che rispondono? “Si tratta di abbozzare una descrizione performativa dei mutamenti del discorso antropologico che sono all'origine dell'interiorizzazione della condizione trasformazionale della disciplina in quanto tale: cioè il fatto (teorico, ovviamente) secondo cui essa è una anamorfosi discorsiva relativa alle etno-antropologie dei collettivi studiati”.
Buona fortuna! Su questa strada, la morte per asfissia è garantita.
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Le citazioni virgolettate provengono dal metafisico volume di Eduardo Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Verona: ombre corte, 2017, rispettivamente alle pp. 35 e 30.
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