venerdì 16 novembre 2012

Sarah Lee Guthrie sbarca a Settignano, alla Casa del Popolo, cantando

Quando avevo sedici anni, con lo zaino in spalla, una camicia lacerata dall’usura e una testa corrucciata e ribelle traboccante di domande e fantasie, per mezzo di autostop sbarcai una sera di fine estate in un paese chiamato Okema, in Oklahoma. Era lì che, cinquantasei anni prima, era nato Woody Guthrie, il cantore ribelle e vagabondo dei tempi della Grande Depressione.
Calava il sole. Mi avviai a piedi, con l’intento di chiedere in giro di lui e della sua casa natale. Ricordo che si fermò una macchina con dentro quattro ragazze della mia età, molto truccate e parecchio allegre, che mi caricarono decise ad andarsi a divertire chissà dove nella mia inusitata compagnia. Mai visto un italiano, in quel di Okema. Ma non avevano mai sentito parlare di Woody Guthrie e avevano la testa nitidamente vuota di qualsiasi domanda e fantasia. Così mi feci scaricare in centro, si fa per dire, e trovai infine chi mi seppe indicare dove stava la Old London House, la casa natale di Woody.
La casa era lì, tale e quale è descritta in Bound for Glory, perfettamente integra, perfettamente vuota e polverosa, abbandonata e sola. Posai lo zaino nel salotto a piano terra, distesi il sacco a pelo e lì dormii sul nudo pavimento.
Il giorno dopo qualcuno mi disse che a poca distanza da Okema, in un paese del tutto simile, come sono del tutto simili così tanti paesi in America, abitava una sorella di Woody, di nome Mary Jo. Zaino in spalla, trovai passaggio per Seminole, Oklahoma. Suonai un campanello e mi aprì Mary Jo. Le ricordavo tanto suo fratello, mi disse, e mi ospitò a casa sua per tre giorni, nella camera di suo figlio che non c’era. Woody era small and wiry come me: e anche il figlio di Mary Jo aveva le mie misure. Infatti lei tirò fuori dall’armadio una camicia da figlio dei fiori, che mi regalò per sostituire la mia, che era azzurra, gloriosa, ma ormai decisamente deceduta.
Quarantaquattro anni dopo, questa sera, senza zaino in spalla, senza falle alla camicia, senza bisogno di autostop, ma con la testa ancora traboccante di domande e fantasie (sebbene ormai non prive di risposte), sono andato a Settignano, sui colli che sovrastano Firenze e che ispirarono, quando Woody era bambino, le magiche fole di Gabriele D’Annunzio.
Sono andato perché alla Casa del Popolo di Settignano, siccome quest’anno se ne compiono cento da quando Woody nacque in quella casa, doveva suonare Sara Lee Guthrie, figlia di Arlo e vivente nipote di quel nonno.
Sara Lee è small and wiry come Woody. Somiglia molto più a suo nonno che a suo padre, che ebbe grande fama negli anni Settanta per un disco ed un film chiamati Alice’s Restaurant. Sara Lee deve avere pressappoco quarant’anni, ma ha un aspetto da ragazzina troppo graziosa, con un nasino da fare impazzire, tanto che a un certo punto qualcuno dal pubblico le ha strillato a gran voce: “Ma quanto sei carina!”
Ha cantato canzoni di Woody e canzoni inventate da lei e da suo marito Johnny Irion, un altro ragazzo quarantenne alla chitarra, che sprizza americana simpatia da tutti i pori. Sarah Lee ha raccontato il suo sollievo per l’elezione di Obama, non mancando di deprecare il fatto che ci si aspetti tanto da un solo uomo, quando siamo tutti noi che dovremmo costruirci un futuro migliore. Ha ricordato qualcosa delle peregrinazioni di suo nonno, che dovunque trovasse un sindacato, ad ogni buon conto ci si iscriveva, pagava la quota e se ne scordava.
Sara Lee è una cantante folk di grande spirito e di bella voce, nella tradizione che va da suo nonno a Pete Seeger, a Bob Dylan, a Bruce Springsteen. Ha riscosso molti applausi fragorosi.
Richiamata per il bis alla fine del concerto, ha cantato il pezzo più famoso di suo nonno, quello che tutti gli americani sanno a memoria, quello che, quando l’America sarà rinsavita, diventerà il suo nuovo inno nazionale: This Land Is Your Land. In questo inno c’è un verso che dice “from California to the New York island”, dalla California fino a Long Island, l’isola di New York. Sara Lee ha detto che una volta suo padre Arlo osservò che quel percorso non va necessariamente per la via più breve. Cioè: può anche fare il giro del pianeta. Cioè: come patria è troppo piccola l’America, è troppo piccola l’Italia o la Cina. Come disse una volta Bob Dylan: “But for the sky there are no fences facing”, non ci sono recinti, a parte il cielo.
Altre due cose vorrei ricordare fra quelle che ha raccontato. La prima: suo padre Arlo, dopo aver comprato la chiesa di Alice’s Restaurant, che esiste davvero non lontano da casa sua, viene pescato un giorno dal vecchio pastore di quella chiesa mentre la spazza e la ripulisce. “Che ci fai?” chiede il pastore. “La pulisco”, fa Arlo. “No, che chiesa ci fai?” chiede il pastore. E Arlo, che ci voleva fare una specie di Casa del Popolo: “A bring-your-own-God churh”, una chiesa porta-il-Dio-che-ti-pare.
La seconda: Woody arriva al suo ultimo ricovero in ospedale (dove sarà visitato da Bob Dylan), malato a morte di chorea di Huntington, il ballo di San Vito. C’è un modulo da compilare, in cui si chiede: “Religion –” Woody scrive diligentemente: “All” Gli dicono: “Ma lei non può appartenere a tutte le religioni!” Woody cancella e scrive: “None”, nessuna.
Questo mi ha ricordato le mie disavventure con Facebook, dove alla stessa domanda ho risposto: “Devoto del mistero delle cose”. Qualche tempo dopo ho scoperto che per Facebook la mia religione risulta: “Sconosciuta”.
Non importa. Sara Lee mi ha detto che Mary Jo è ancora viva. E’ in una casa di riposo, come si usa in America, ma ha la mente perfettamente lucida, e non è meno amabile di un tempo. Forse ha ancora qualche camicia da dar via dentro l’armadio. Woodrow Wilson Guthrie si è lasciato dietro una famiglia non indegna di lui, oltre a qualche canzone immortale.


2 commenti:

  1. Post segnalato nel mio blog, grazie degli approfondimenti
    http://lafestina.blogspot.it/2012/11/festina-e-stata-studentessa.html

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  2. L'ho letto e, come mi succede spesso in questi casi, sono stata colta da una sorta di nostalgia. E di invidia. Così come quando sento cantare Guccini a sua figlia, e forse anche a me: "Non avrai le mie risse terrose di campi, cortili e di strade, e non saprai che sapore ha il sapore dell'uva rubata ad un filare.." o quando sento dire ad Andrea Semplici che la mia generazione non potrà mai godere pienamente della vita quanto la vostra, nonostante le opportunità, la ricchezza e l'abbondanza nella quale siamo immersi..
    Penso di aver conosciuto la felicità solo a Koln, nella Domplatz dove ho conosciuto un uomo che regalava sigarette ai passanti "perché gli sembrava che le persone ne avvertissero il bisogno". E sulle rive del Reno, cantando con dei perfetti sconosciuti, che affatto sorpresi dalla mia apparizione mi dimostravano la loro ospitalità regalandomi birre e sigarette. E una sera intorno ad un fuoco, dove io e Falko cantammo e giocammo come bambini tutta la notte..
    Ma ho già 18 anni. La mia infanzia è stata triste, e la mia adolescenza vuota e priva di frutti. Mi affaccio al mondo degli adulti con solo un assaggio della bellezza, e la consapevolezza che queste poche gioie dovrò custodirle con cura perché erano le prime e saranno le ultime.
    Non potrò girare l'America con lo zaino in spalla, godere del buio pakistano..
    Non mi resta che sognare di aver vissuto la sua vita, e di avere il carattere di Falko, aperto al mondo e gioioso di vivere.

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