lunedì 1 agosto 2011

Una legge elettorale anti-casta? Ma non fateci ridere!

“Una legge elettorale anti-casta: parlamentari non più nominati, ma eletti con il sistema dei collegi uninominali a doppio turno con un recupero proporzionale”. Così, il 27 luglio scorso, un grande quotidiano italiano descriveva la proposta di legge elettorale del Partito Democratico.
Fra le tante fandonie che ci tocca leggere e sentire sui media, questa è davvero una delle più colossali.
Una legge anti-casta? Il concetto di “parlamentari nominati” è un’iperbole riferita al fatto che, nell’attuale sistema elettorale, gli elettori non possono scegliere fra i candidati presentati dai partiti, i quali sono elencati in una lista “bloccata” ed eletti secondo il numero d’ordine stabilito dai partiti stessi. In pratica, gli elettori decidono quanti seggi andranno a ciascuna lista, i partiti decidono chi li occuperà.
Con un sistema uninominale, invece, ciascun partito presenta un unico candidato e gli elettori non hanno altra possibilità di scelta che indicare quale partito preferiscono e, di conseguenza, a quale candidato dare il voto. Sostenere che questo sia un voto “alle persone”, anziché ai partiti, è un’autentica assurdità. Se io ho idee politiche abbastanza vaghe o eterodosse da non saper bene quale partito preferisco (o detesto di meno), allora potrò scegliere fra due o tre candidati di partiti affini, per esempio dell’IdV o del PD o di SEL (i vendoliani). Ma il mio margine di autonomia sarà pur sempre limitato alla scelta fra candidati selezionati dagli apparati, il cui comportamento in parlamento sarà determinato, nella stragrande maggioranza dei casi, dal partito che li ha selezionati.
Un sistema uninominale, insomma, è un sistema in cui, per definizione, i parlamentari sono interamente nominati dai partiti. Con questo peggioramento rispetto all’attuale Porcellum: che mentre oggi il voto degli elettori determina almeno in modo piuttosto preciso quanti seggi andranno a ciascun partito, con un sistema uninominale anche questo elemento non deriva più direttamente dalle scelte dei votanti, ma dipende dalla distribuzione territoriale delle loro preferenze, cioè, in larga misura, dal caso. E’ così che è potuto accadere che nessun governo prodotto dai parlamenti eletti con l’uninominale nell’Italia repubblicana abbia mai avuto a proprio favore la maggioranza degli elettori (quest’ultimo è un dato di fatto ignoto ai più, ma chiunque può verificare che è vero).
Il doppio turno, poi, non rimedia a nessuna di queste gravissime carenze. Anzi, obbliga i partiti ad una contrattazione occulta in base alla quale, con il gioco delle desistenze reciproche, si determina l’effetiva composizione del parlamento alle spalle della volontà degli elettori. Il PD dà i suoi voti a Di Pietro in Abbruzzo se Di Pietro dà i suoi voti al PD in Campania, e così via. Tutto il potere alle segreterie nazionali.
Naturalmente ci sarà chi obietta: ma noi lo correggiamo con le primarie! Bravi. Le primarie sono un procedimento di diritto privato, un affare interno dei partiti che sono perfettamente liberi di farne a meno. Non solo: se applicate a centinaia di seggi uninominali, vedrebbero certamente una partecipazione nell’ordine, al massimo, di un decimo degli elettori del partito interessato, quelli più direttamente controllabili dagli apparati. Avremmo dunque, nel migliore dei casi, una ristretta minoranza che decide per tutti gli altri.
Non è certo in questo modo che si limita il potere della “casta”. In favore dei sistemi uninominali, o dei sistemi maggioritari in generale, si possono argomentare tante cose, anche se tutte, a mio parere, altamente discutibili. Ma spacciarli per una “legge elettorale anti-casta”, questo no. Non fateci ridere, questa è davvero una fandonia colossale.



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